Monday, 03 January 2011 12:44
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APOLOGIA DELLE LUNE E DEI DESERTI, DEL MARE E DELLE OMBRE
di Luigi Compagnone
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Se tu accetti di scrivere una nota su un pittore, è perché presumi di contribuire a farlo capire. Ma prima devi capirlo tu. Quel che dico può sembrare molto ovvio. Invece non lo è. Vi sono, infatti, scrittori che gettano un'occhiata sulle tele e si mettono subito a vibrare. Cosa intendo per vibrare? Adoperare un linguaggio tra mistico ed esaltato. Adottare toni da profeti. Affermare, senza tema di arrossire, di essersi sentiti travolti e perturbati dagli 'allarmi' sparsi dal penello del pittore, allarmi ecologici, idrologici, inorali, psicanalitici, psichiatrici, nuviali, oceanografici, onirici, simbolici, ecc. I quali allarmi convergono, scrive lo scrittore che si è assunto il còmpito d'illuminare il 'fruitore' in un dirompente presentire sciagure d'ogni genere, annuncianti perdizioni e strazi terrestri, interplanetari, intergalattici. In due parole: l'Apocalisse è vicina a deflagrare tra roghi catastrofici. Dopodiché, s'immagina che lo scrivente corra a suicidarsi invece va a farsi un piatto di spaghetti. Lo so, sono alquanto grossolano. Ma perché stufo di retoriche infantili. Ciò premesso, mi chiedo quali 'allarmi' siano quelli di Di Riso. Non lo so. Ma la sua mi sembra una pittura 'tranquilla'. Che, almeno per un poco, ci ha lasciaio presagire il Terremoto ma subito lo ha gettato via assieme alla Scala Mercalli. Guardate i suoi colori. Son colori 'caldi' e 'freddi' inducenti nell'insieme all'ottimismo. All'ottimismo della ragion poetica, non a quello della volontà. Guardate quel 'Pomeriggio nel deserto'. Non mi fa rabbrividire. Mi fa pensare che il deserto è 'buono' perché appartiene a un ordine terrestre ormai consolidato, qual è stato fin dai primi tempi della creazione, fin da quando Adamo calcò lo scalzo piede sulla Terra. Guardate 'L'ombra del pianoforte'. Un'ombra che si allarga e rassicura. Non l'Ombra presagita dal profeta Carl Gustav Jung: 'Ognuno è seguito da un'Ombra'. Ma qui, più quest'Ombra è incorporata al pianoforte, ossia alla musica dei giorni e delle notti, più essa è confortevole. Una breve confessione: odio un aggettivo. L'aggettivo 'inquietante'. E' l'aggettivo di quelli che, mettendosi alla macchina per scrivere, si limitano a vibrare. Di Riso non mi rende inquieto. Non mi fa vibrare. Le sue luci, le sue ombre, i suoi azzurri, i suoi rossi, le sue lunarità, mi rallegrano il respiro. E anche il soma. Vi sono pittori spermatici, e pittori pneumatici (da pneuma: soffio, alito, respiro). Gli spermatici, ribollono di materia. Gli pneumatici, sono i pittori del respiro. Respirando, fanno respirare anche il soma. Quel soma che, presso i Greci, designava la parte di noi condannata a perire. Ma Di Riso la alimenta col suo soffio, e celebra in tal modo il soma vivente, non quello perituro. Perciò non m'inquieta; anzi mi rallegra, e l'allegria è anche speranza. Guardate il 'Guerriero che posa armato', è, invece, un Guerriero disarmato, medilante fra le temerarie mecscolanze del basso e del sublime, della guerra e della pace, del reale e del fantastico. Guardate i suoi 'Bastioni'. Con la loro immobile onnipotenza, la loro onnipresenza, incise nella pietra, richiamano Henry Moore. Fanno pensare, dice bene Vitaliano Corbi, a 'quasi un elenco di cose da ricordare, per uso del tutto privato'. E il sentirnento del privato induce alla quiete. E il sentimento della quiete rifiuta l'allarme e il finimondo. Ci illumina d'immenso. Guardate 'Note alla luna' e 'Rotazione magica'. Vi appaiono tre lune. E il 3 è il numero del perfetto, o che aspira alla perfezione. Di Riso è un Pierrot lunaire, orchestrato da uno Schonberg in annonia dodecafonica col ternpo e con lo spazio. 11 tempo è quello scandito dalle tre lune, lo spazio è la Campania. Ma Di Riso non fa pittura indigena. Non dipinge il paese e le sue case. Non ha mai coltivato la tradizione sentimentale, quella dell'idillio e della celebrazione paesana. All'intenerimento sulle reliquie veteropaesaggistiche, ha preferito il nudo richiamo dello spazio, e degli spazi. Di qui, la sua apologia delle lune e dei deserti, del mare e delle ombre: un ottimismo rotatorio, che va e viene, rotando intorno a se stesso. Ossia intorno alla Terra Madre, e alla sua umile superbia.
Per Approfondimenti : Luigi Compagnone
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Last Updated ( Wednesday, 12 January 2022 09:18 ) Monday, 03 January 2011 12:44
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Il corpo della terra - Gli antichi credevano che la terra poggiasse sulle spalle di Atlante
di Vitaliano Corbi
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Il Mito dice: Atlante porta su di sé il mondo, tiene sul proprio corpo il mondo, i luoghi del mondo sono sul corpo dell’uomo, il corpo dell’uomo è d’escritto dai luoghi del mondo, il corpo diventa quindi la topologia del mondo, la mappa-mondo. Gaetano Di Riso ha immaginato che il corpo della terra potesse identificarsi con il corpo stesso dell’uomo e ha visto perciò aprirsi, su questo, paesaggi lontani e dolcissimi, popolati di case e di alberi, con lunghe strade che attraversano le pianure e salgono verso i monti. Sono in realtà “paesaggi” senza spettatori perché non c’è luogo da cui guardare, l’occhio percepisce e vede sincronicamente spazi lontani e vicini vette inaccessibili e cavità profondissime. Non si può parlare di paesaggi in senso strettamente pittorico, direi piuttosto 'luoghi', 'territori' o anche 'spazi della rappresentazione nella Storia dell’Arte'. In quasi tutti i quadri del ciclo intitolato “del cielo e della terra”, e realizzato durante il 1993, si può riconoscere la linea delle spalle e dei fianchi di una gigantesca figura umana, che lascia fuori di sé solo qualche lembo della superficie dipinta. In questo ciclo si avverte la presenza di un’idea che, associando intimamente e, per così dire, nella medesima carne, l’uomo e la terra, ripropone in qualche modo il rapporto con la “grande madre”, ma nello stesso tempo lo capovolge e fa del nostro corpo il luogo d’iscrizione dei segni della storia e della natura. E lo fa con un senso acutissimo della precarietà con cui procedono l’una e l’altra. Non, dunque, pretendendo di dedurre dal mito dell’origine qualche rassicurante certezza sul corso degli eventi, su una loro segreta unità teleologica che ci garantisca la felicità dell’approdo finale. Forse è un’idea non molto lontana da quella espressa da Foucault quando, sulla scorta della Genealogia di Nietzsche, sottolineava come “la genealogia non pretende di risalire il tempo per ristabilire una grande continuità al di là della dispersione dell’oblio; il suo compito non è di mostrare che il passato è ancora lì, ben vivo nel presente, animandolo ancora in segreto, dopo aver imposto a tutte le traversie del percorso una forma disegnata fin dall’inizio”. I sentieri che, tra casolari e cespugli, tra lapidi e muri, tra ponti e cipressi, si snodano nei paesaggi intravisti da Di Riso sul corpo dell’uomo, e ancora di più il filo di fumo che si trasforma e si perde nell’aria, mentre, allontanandosi dal suolo, allunga su questo una traccia d’ombra, inducono a pensare all’attraversamento di quei luoghi come a una lenta, oscillante risalita nel tempo, attraverso percorsi, cioè, che segnano la mutevole e complessa trafila della “provenienza”. E ciò può significare, come dice Foucault, “ritrovare gli accidenti, le minime deviazioni - o, al contrario, i rovesciamenti completi - gli errori, gli apprezzamenti sbagliati, i cattivi calcoli che hanno generato ciò che esiste e vale per noi; è scoprire che alla radice di quel che conosciamo e di quel che siamo non c’è la verità e l’essere, ma l’esteriorità dell’accidente”. Si direbbe proprio che Di Riso, nel dipingere questa grandiosa figura d’uomo, distesa ad occupare quasi interamente lo spazio del quadro, abbia anch'egli intuito che nel corpo dell’uomo, sul suo “volume in perpetuo sgretolamento”, si annodano e si sciolgono i percorsi della provenienza e che da qui nascono i ricordi del passato e le spinte del desiderio. L’artista traduce la consapevolezza della dispersione e dell’accidentalità della storia che “devasta il corpo” in un sentimento di leggerezza e di ariosa mobilità. I luoghi e i tempi della provenienza, segnati sul corpo, diventano paesaggi che del cielo, verso cui sembrano innalzarsi svaporando, hanno non solo l’azzurro del colore, ma anche l’assottigliata, impalpabile consistenza e l’irraggiungibile lontananza. Allora, nella frammentata casualità del reale, proiettata così a distanza, l’artista intuisce la presenza della dimensione del possibile e dall’intreccio tragicamente aggrovigliato dei ricordi e dei desideri, di ciò che è stato e di ciò che sarà, vede affiorare l’immagine seducente della libertà. Perciò Di Riso, in alcune sue preziose pagine di appunti, osserva, a ragione, che “il corpo della terra ha perso i colori della vita, quello delle cose concrete, del dolore fatto di lacrime e di urli, quello dei sensi che gonfiano il cuore e delle rosee carni, turgide e drammatiche. Tutto è blu, tutto ha il colore dell’immateriale, tutto è silenzio e lontananza”. Il singolare scambio di ruolo tra l’uomo e la terra che egli abita - scambio che, com’è ovvio, diventa, visivamente, ribaltamento dei normali rapporti proporzionali - potrebbe, però, indurci alla conclusione che, in fondo, ci troviamo di fronte alla rappresentazione di un mondo in miniatura, a piccole scene istoriate, o più propriamente, trattandosi del corpo d’un uomo, alla simulazione di un minuzioso e paziente lavoro di tatuaggio. In realtà le cose stanno in modo profondamente diverso. Intanto, quelli che vediamo sono paesaggi d’ampio respiro. In essi s'aprono cieli di una luminosità alta e diffusa e pianure che si distendono nello spazio e colline e monti che s’innalzano leggeri e si perdono in una sottile nebbia azzurra. Se, poi, seguiamo questa nebbia, ci accorgiamo che essa supera spesso il confine di quel corpo così immane che non riusciamo a vederne la testa, altissima, in fuga al di là dello schermo del quadro. Lo sconfinare della nebbia fuori del corpo, movendo dal paesaggio che vi è iscritto verso uno spazio esterno niente affatto vuoto, ove, anzi, talvolta, tra ombre e foschie, appaiono improvvisi un ondeggiare di flutti e un baluginio d’altri paesi, contribuisce a risolvere definitivamente il sospetto che l’artista possa aver escogitato niente altro che un’abile trovata figurativa, riproducendo sulla pelle del suo gigante un mondo in miniatura. La dimensione della figura umana, su cui sono disegnate le immagini paesaggistiche, non fornisce, dunque, un parametro fisso di giudizio. Essa stessa, infatti, viene rimessa in discussione all’apparire, al suo esterno, di quei frammenti di mondo che la trasformano, come in un gioco di scatole cinesi, da supporto e quasi contenitore spaziale in un elemento incluso a sua volta in una più ampia struttura spaziale. Soprattutto cade la possibilità di una lettura di queste opere condotta tutta entro le regole rassicuranti dell’esperienza comune, mentre risulta notevolmente accresciuto il loro grado di ambiguità. Nei dipinti di Di Riso si scopre la presenza di livelli diversi di rappresentazione, con un processo simile a quello della mise en abîme, o dell’opera nell’opera, che, come è noto, è indizio, nell’arte contemporanea, non tanto d’una ricerca di virtuosismi illusionistici quanto di una riflessione critica sulla struttura interna dell’arte e sul problema del rapporto di questa con la realtà. L'identificazione del nostro corpo con quello della terra appartiene certamente all'ambito del pensiero mitico e di questo, nella pittura di Di Riso, conserva la densità e l'ambiguità, stringendole felicemente nell'intuizione di immagini nitide e tuttavia dotate di una loro particolare fluidità spaziale, morbida, oscillante e quasi onirica. E se questa fluidità sembra talvolta spingersi a un punto tale da lacerare quell'identificazione e preparare il ritorno dell'alterità, la dolcezza ariosa del linguaggio di Di Riso, i suoi delicati impasti romantici e una materia pittorica di una bellezza discreta, e, proprio per questo, estremamente preziosa, ci avvertono che non siamo di fronte alla rappresentazione di un'alterna, tragica vicenda di cadute e di risalite, di fratture e di faticose ricomposizioni del rapporto tra il corpo dell'uomo e quello della terra. Quando sembra maggiormente allontanarsi il sogno dell'identità originaria, quando, ad esempio, il paesaggio, perdendo l'evidenza dei suoi confini antropomorfi, pare riavvicinarsi ai modi tradizionali della veduta e l'uomo torna ad essere solo uno dei personaggi che passano sulla scena della natura, proprio allora comprendiamo più chiaramente che nell'universo della pittura di Di Riso respira un'unica sostanza, che, per usare ancora una felice espressione dell'artista, 'un leggero alito di aria, spessa, umida, da cui ogni cosa prende forma con la stessa leggerezza con la quale possiamo vedere affacciarsi e scomparire tra le nuvole le creature della nostra fantasia'. “Talvolta noi vediamo una nuvola prendere forma di drago; talvolta un cirro la forma di leone o d’orso o di turrita cittadella o d’un aereo picco; di forcuta montagna, di azzurri promontori vestiti d’alberi, che fanno cenno colle chiome al mondo giù e ci illudono gli occhi con un gioco d’aria”. (Shakespeare, 'Antonio e Cleopatra'). Le immagini dei dipinti di Di Riso non possono certamente essere confuse con le cose reali del mondo di giù. Eppure, esse per certi aspetti non solo gli somigliano, ma soprattutto hanno l'aria di parlarci proprio delle nostre cose quotidiane e di aiutarci a capirle, a cogliere in esse quella misura del possibile che - si è già detto - è la matrice della libertà e che normalmente rimane nascosta dietro la certezza dei fatti e delle loro relazioni oggettive. Forse per questo nel luogo dove abitano le immagini di Di Riso i corpi hanno un tenue grado di opacità. Per rivelarli non è necessaria una luce violenta, sfolgorante, ma basta quella diffusa luminosità che sembra appartenere alla materia stessa di cui son fatti e che può variare dolcemente, accordandosi col variare delle forme e della loro densità. Qui il vuoto può diventare pieno, il cielo confondersi con la terra e il fumo dialogare con l'ombra. Qui non ci sono barriere a dividere i vivi dai morti, le case dalle tombe, i giardini dai cimiteri. Questa sottile aria azzurra può compiere il miracolo di conciliare una profonda e inestirpabile malinconia con una pacata e tranquilla serenità. Nel mondo di Di Riso, infine, noi possiamo riconoscerci nel corpo della terra che calpestiamo e nello straniero senza volto che ci sta di fronte. Guardando i dipinti di Di Riso dal mondo di giù, si ha l'impressione che in quei luoghi lontani sia avvenuto qualcosa. Avvenimenti comuni - come possono essere quelli che si svolgono nei paesi e nei casolari sparsi per la campagna, all'ombra degli alberi, lungo le strade e i viadotti che attraversano le valli - eppure misteriosi, poiché, mentre se ne vedono chiaramente i segnali, non si scorge però nessuna presenza dei loro autori, degli uomini, cioè, che li hanno prodotti. Forse anche da qui deriva la singolare sensazione di slittamento fuori del presente che si prova dinanzi a questi quadri. Come se avvertissimo uno scarto incolmabile tra il tempo della percezione e quello interno dell'immagine. Come se si trattasse di un acconto al passato, o meglio della lettura di un documento scritto, da chi sa chi e quando, a futura memoria. La pace, il silenzio profondissimo che accompagnano questi dipinti rafforzano in noi la convinzione che quel che essi rappresentano siano solo indizi di fatti già accaduti e scivolati via nel silenzio del passato. Indizi, alla fine, del 'silenzio nudo' di cui parla Leopardi nel 'Cantico del gallo silvestre', quando immagina il tempo in cui 'quest arcano mirabile e spaventoso dell'esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi'. Ma appunto perché questa del Leopardi, come egli dice, è conclusione poetica, non filosofica, si può pensare che anche tutti i segnali di fine disseminati da Di Riso nei suoi dipinti in realtà non vogliano avere il valore di una profezia, ma si riferiscano in primo luogo all'opera stessa e, coerentemente con quanto si è già osservato a proposito dell'uso del procedimento della mise en abÓme, devono essere considerati in qualche modo segnali autoriflessivi. Il tempo concluso, il tempo che conosce la sua fine, è il tempo dell'opera d'arte. La storia del 'uomo e della natura', che Di Riso enigmaticamente riassume nelle sue immagini, non è più rumorosamente in atto, ma già consegnata al silenzio di un''infinita lontananza'. Il silenzio del nulla di cui parla il Poeta. Ma anche quello che accompagna e conclude la nostra esperienza di un'opera d'arte. Che è, o aspira ad essere, immagine in sé perfettamente compiuta di un universo possibile di vita.
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Last Updated ( Wednesday, 12 January 2022 09:19 ) Monday, 03 January 2011 12:44
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Dell’uomo e della natura
di Valerio Terraroli
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Un’ondata di azzurro e blu cobalto, appena striata di sottili e impalpabili effluvi biancastri, forme mpercettibili insieme concrete e virtuali, paesi e città moderni eppure antichi, ecco il mondo poetico e l’atmosfera visuale che ti accolgono e ti abbracciano nello studio di Gaetano Di Riso. Si tratta, come è giusto he sia, di un mondo pittorico tutto interiore, a lungo meditato e visitato dall’artista, senza tuttavia mostrare ai un algido distacco dalle esperienze reali, ché anzi le porzioni di mondo che Di Riso costruisce sulle tele, entamente e con un’attenzione miniaturistica, sono tracce di vita vera, di vita vissuta, di contesti angibilmente umani.Il percorso segnato dal pittore è stato accidentato e complesso, i mutamenti radicali eppure percorrendo il suo urriculum o meglio ripensando alle sue opere si coglie una tensione emotiva forte e coerente, la quale nel assato emergeva palesemente e in modo violento e per certi versi irrazionale dalle tele, poi ha via via trovato na strada diversa, ma non per questo meno forte. Anzi il decantarsi delle tensioni, il liberarsi da doverose ichiarazioni d’intenti, il guardare il mondo esterno con occhi smaliziati e affettuosi, ha dato vita ad un nuovo inguaggio pittorico caratterizzato da una sintassi compositiva armonica che si muove sempre all’interno di un rande respiro sia cromatico sia di ispirazione poetica.Ho già avuto occasione di parlare di questi paesaggi umani o, se si vuole, di uesti uomini paesaggio nei quali la fusione, in apparenza senza contrasti, tra la Natura e le presenze umane, are impersonare un mondo neorinascimentale nel senso di un universo armonico e positivo, perfettamente razionale in ogni parte commensurabile e comprensibile. Tuttavia la non definizione dei dettagli, il rifiuto di una escrizione naturalistica, la semplificazione e commistione dei piani, le atmosfere evocative, inducono a vedere e pensare in queste tele di Gaetano Di Riso qualcosa di più di ciò che i nostri occhi d’acchito percepiscono, ualcosa che attiene più alla sfera delle esperienze inconsce e dei sentimenti universali. Il paesaggio, ammesso he si voglia utilizzare questo genere della pittura di tradizione per indicare insiemi di natura e paesi, rizzonti remoti e figure umane, è qui interpretato in veste di enunciazioni di pensieri e di decantate sintesi di sperienze culturali ed emotive eche trova lontanissime origini nella pittura del Sublime, e cito per tutti e non asualmente l’opera di Caspar David Friedrich, ma che ha avuto un’infinita serie di rielaborazioni e declinazioni anche nella pittura del nostro secolo dalla Metafisica al Novecento.Nelle ultime opere realizzate tra il 1997 e la prima parte del 1998, uelle che appunto oggi vengono esposte, si riconosce un ulteriore cambiamento nelle modalità e negli approcci ai roblemi della pittura da parte dell’artista. In queste recentissime opere emerge con più definita volontà e con na forza delicata e decisa una parvenza delle “cose” umane sulla genericità cosmica della Natura. E non si tratta emplicemente di una maggiore definizione dei corpi-mondo che contengono paesaggi, né di un maggiore spazio dato ai segni indelebili dell’antropizzazione della natura mediterranea, bensì di atmosfere nuove, se si vuole splicitamente evocative, di “presenze” sia umane sia sovra-umane e di architetture senza tempo, classiche e ustiche, dignitosamente povere e aristocratiche, tutte incastonate come pietre iridescenti nei titanici orpi-natura che talvolta si aprono a mostrare profonde e magmatiche fatture, tal’altra si rivestono di fronde, rbusti, fumi e sottili vapori. Un Mediterraneo palpitante di vita, velato di atmosfere nordiche e lussureggiante ome l’Oriente, austero come il deserto e cangiante come i ghiacciai, ci abbraccia e penetra nei nostri occhi alle tele di Gaetano Di Riso: esse ci parlano un linguaggio antico e ci proiettano verso un futuro, un nuovo assello si è aggiunto al mai terminato discorso dell’uomo e della natura. Lunedì 7 iugno 2004, venerdì sera mentre mettevo ordine… o forse era sabato mattina ho trovato un po’ della mia pittura, ra una breve collezione di piccole tele, alcune veramente piccole; stavano dentro un sacchetto di plastica rasparente, sai quei contenitori che sembrano delle grandi buste da lettera col risvolto? L’ho aperta e iano-piano ho incominciato a guardarle. Sono venute fuori ombre d’uomini con case, fiumi, paesi, alberi, fumi, ma oprattutto figure notturne. Erano ombre d’angeli con grandi ali, ombre di persone in piedi, figure lontane… Come l solito. La Pittura mi aveva trovato! Stupendomi. Quando accade che vengo visitato dalle mie cose, quando le riconosco, mi prende una gran presunzione, mi orprendo dell’amore per quelle immagini. Più mi passano sotto gli occhi e più m’inorgoglisco e più mi sembra inopportuno tanto entusiasmo, mi lascio andare ad una forma di piacere paradossale e di segreta felicità. Forse o faccio per stupirmi, oppure per darmi coraggio, però quelle piccole tele, in questo caso, mi piacevano (e mi iacciono) tantissimo. Guardandole mi meraviglio della serietà del linguaggio pittorico, di quella sobria essenzialità che si nota nell’uso del colore e nel descrivere le forme. La capacità di narrare il silenzio, la ontananza, la compostezza, la bellezza di figure messe in salvo dalla quotidianità. Rese senza tempo, per essere à dove il futuro è già stato...
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Last Updated ( Wednesday, 12 January 2022 09:19 ) |